In un momento di così grande cambiamento delle nostre consuetudini sociali e di relazione credo sia opportuno approfondire quale sia il senso e la funzione di un teatro pubblico in Italia.

In questi anni abbiamo dovuto produrre soprattutto con un costante occhio ai numeri. Il teatro è certamente anche un’azienda, nel senso che deve garantire la miglior gestione manageriale e i bilanci in pareggio. Noi questo lo stiamo facendo in maniera virtuosa ed è un impegno che io prendo molto sul serio trattandosi di denaro pubblico, cioè di noi tutti.

Abbiamo dunque deciso di ripartire subito, non appena ciò è stato possibile, e abbiamo contribuito alla riuscita della rassegna SummerPlays con sette tra nuove produzioni e coproduzioni. Facendo immediatamente lavorare un numero consistente di lavoratori dello spettacolo.

Noi vorremmo però essere qualcosa di più, vorremmo essere un teatro che si assume un rischio artistico sempre più alto, compiendo un lavoro fondato sulla ricerca e sulla qualità, dando la possibilità agli artisti, giovani o maestri riconosciuti che siano, di lavorare al meglio. Si dovrebbe premiare la qualità, il rischio e il tempo investito nella ricerca evitando l’appiattimento sistematico sui soli numeri.

Mi piacerebbe che la fine della pandemia coincidesse anche con la fine della nostra autoreferenzialità, perché il teatro deve tornare ad avere una funzione sociale all’interno della città, com’era ad Atene.

TPE è un teatro partecipato da Regione Piemonte e Città di Torino. E quindi deve incarnare un ruolo di servizio alla comunità.

Dobbiamo mischiarci di più. Occuparci dell’istruzione, raccontare nelle scuole cos’è lo spettacolo dal vivo. Nel periodo della chiusura forzata ho amaramente constatato che, presso l’opinione pubblica, oggi, il teatro è considerato un oggetto superfluo, quasi che il nostro lavoro fosse un hobby per perditempo. La colpa è anche nostra, non siamo stati in grado di far comprendere a sufficienza ai nostri concittadini che il teatro, come tutte le altre arti, è necessario ad un Paese che voglia avere uno sguardo di futuro.

Leo De Berardinis diceva che bisognava considerare l’arte teatrale come la sanità: un bene pubblico. A condizione che lo Stato glielo riconosca. Purtroppo abbiamo visto recentemente che neppure la Sanità (il cui ministero di riferimento ha perso l’aggettivo «pubblica») se la passa troppo bene. Eppure è stato stimato che il comparto del Sistema Produttivo Culturale e Creativo in Italia si attesta tra il 6 e il 7% del Pil nazionale. Non male, vero?

Salvare il teatro da solonon serve a niente. Siamo parte di un sistema culturale molto più complesso che comprende scuola, musei, arte, musica, beni culturali materiali e immateriali. Invece continuiamo a lavorare troppo spesso settorialmente, ognuno con i propri interessi particolari. E così facendo rischiamo l’ecatombe, soprattutto culturale.

La storia ci insegna che quelle che una volta si chiamavano «pestilenze» si presentano regolarmente. Nel 1593, e per un biennio, i teatri di Londra rimasero chiusi per la peste. Shakespeare era senza lavoro, e scrisse su commissione quel capolavoro che è il poemetto Venere e Adone, che diventerà una pietra miliare della poesia non solo inglese con 16 ristampe nel solo Seicento, un’enormità per l’epoca.

Non lo sappiamo, ma forse in questi mesi di clausura e lento ritorno qualcuno sta scrivendo pagine che leggeremo solo più tardi. O ha già ideato o provato quello che scopriremo essere un capolavoro. A noi è consegnato un tempo fisiologico che non possiamo governare, ma che speriamo ci riporti in breve alla normalità, e con una sostenibilità diversa.

Per quanto mi riguarda, ho cercato di mettere tanta energia e coraggio espressivo in questa ripartenza, sia in scena, sia nella programmazione culturale dei prossimi mesi. Io credo che di questo ci sia bisogno, e non di un ripiegamento doloroso nell’intimismo e nel vittimismo, che è il pericolo più grosso che si possa correre oggi.

 

LA STAGIONE

 

Abbiamo deciso, come molti altri teatri in Italia, di programmare fino a dicembre. Non è che non abbiamo pensato a cosa fare da gennaio in poi, ma attendiamo gli sviluppi e l’evoluzione della crisi sanitaria e regole certe per il futuro che speriamo sia possibile avere a breve.

Abbiamo comunque deciso di ripartire dando soprattutto spazio a chi fa un teatro meno immediatamente commerciale e ad alcuni artisti che pian piano sono diventati o diventeranno centrali nel progetto culturale e artistico del TPE. Molti degli spettacoli presentati sono infatti produzioni o coproduzioni.

Molti dei lavori presentati, spalleggiati in questo dal Festival delle Colline Torinesi, hanno una forte componente «autoriale»e sono stati creati da alcuni tra i nuovi maestri della scena italiana.

Penso ad artisti come Elena Bucci, Danio Manfredini, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Numerosi i giovani registi prodotti: due di questi, Jacopo Gassmann, che aprirà tra l’altro la stagione del teatro Astra, e Fabio Condemi, debutteranno con i rispettivi lavori alla Biennale di Venezia.

Tra i molti attori di talento presenti in questa prima parte di stagione citiamo almeno Michele Di Mauro, Sara Bertelà,Maria Roveran, Anna Della Rosa, Francesco Alberici, Roberta Caronia, Marco Foschi, Danilo Nigrelli, Marco Manchisi, Irene Petris.

Recuperiamo con grande piacere due spettacoli di Palcoscenico Danza con due folti ensemble guidati dalla carismatica presenza di Michela Lucenti leader del Balletto Civile che presenta il suo nuovo Madre, e da Pompea Santoro che porta il suo gruppo Eko Dance a incontrare cinque coreografe emergenti.

Per quanto riguarda la drammaturgia contemporanea segnaliamo il nuovo testo di Margherita Mauro (Come Out! StonewallRevolution) messo in scena da Michele Rho,I Vividi Ade Zeno, che vede proseguire la collaborazione di TPE con Jurij Ferrinie Rebecca Rossetti, L’Angelo di Kobanedi Henry Naylor per la regia di Simone Toni e l’interpretazione di Anna Della Rosa, e chiude il cerchio lo spettacolo inaugurale della stagione: Niente di me di ArneLygremesso in scena da Jacopo Gassmann.

A chiudere invece questa prima parte di stagione, con la speranza che per allora il contingentamento sia superato, due progetti di ampio respiro, i due gemelli veneziani di Carlo Goldoni, il mio primo incontro con il grande drammaturgo, in uno spettacolo prodotto da TPEcon il Teatro Stabile del Veneto e il Teatro Metastasio di Prato e la nuova versione della creazione di Romeo Castellucci realizzata a partire dalla celebrata SchwanengesangD744 di Franz Schubert.

 

«Nel firmamento che guardiamo di notte, le stelle risplendono circondate da una fitta tenebra. Poiché nell’universo vi è un numero infinito di galassie e di corpi luminosi, il buio che vediamo nel cielo è qualcosa che, secondo gli scienziati, necessita di una spiegazione. […] Nell’universo in espansione, le galassie più remote si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci. Quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce. Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare.»

Giorgio Agamben, Che cos’è il Contemporaneo?, Nottetempo, 2008

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